F r u c o

da "Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"
di Lorenzo Milanesi (Milano)


Il cielo cominciò a perdere lo smalto settembrino susseguente ai fragorosi temporali d’agosto e, di tanto in tanto, qualche scroscio d’acqua - d’assaggio - preannunciava l’uggioso periodo delle piogge. Gli ultimi scampoli dell’estate si ingarbugliarono nell’aria con il forte odore del mosto, suggellandone la fine.
Tutti ormai avevano ripreso in pieno le loro attività e le abitudini e le occasioni d’incontro furono circoscritte alla messa domenicale e a qualche rara festività.
Pietro resistette due domeniche di fila senza avere contatti esterni: una la impiegò in bottega a molare certi attrezzi e a olea- re la piallatrice, e l’altra a impagliare una sedia che stava lì ad aspettare a bocca aperta da mesi e mesi.
Alla terza domenica non sapeva come fare per mettersi in contatto con Pertinace. Quella mattina andò in chiesa con la moglie e i bambini. Pioveva a dirotto. Al ritorno lo attendeva sotto il portone un contadino al quale aveva riparato la stanga di un calesse, roba da poco, tanto che lui stesso se n’era dimenticato.
Gli porse un paniere di funghi ovuli e porcini. “Questi per il vostro disturbo” gli disse. “Ma perché...” borbottò Pietro senza che potesse concludere. Quello, con un “buona domenica” annacquato dalla pioggia, si allontanò di corsa. Entrarono in casa inzuppati, tanto che dovettero cambiarsi dalla testa ai piedi. Poi, mentre la moglie cominciava a preparare la tavola per il pasto, a Pietro venne un’idea. Prese il paniere dei funghi, scelse i migliori, li pose in un cestino di vimini che avvolse in un tovagliolo bianco con due nodi a croce e chiamò Luigino. “Prendi l’ombrello grande e porta questo cestino al signor maestro, al tuo padrino. Fai presto e vedi di non bagnarti” gli disse.
Sperava che da Pertinace arrivasse qualche segno. Luigino fece più in fretta di quanto suo padre immaginasse e riportò, con i ringraziamenti, l’invito a casa di Pertinace per il pomeriggio. “Se proprio non hai alcun impegno” concluse Luigino, ripetendo le precise parole di Pertinace.
Era ciò che egli si aspettava. Mangiò svelto, si liberò delle minute faccende del dopopasto, confermò alla moglie, la quale aveva sentito le parole di Luigino, che avrebbe fatto visita a Pertinace e si avviò senza ombrello.
Non pioveva più difatti e larghe chiazze d’azzurro s’incastonavano qua e là nella vasta coltre di nuvole che si aggirava lenta sulla pianura. All’orizzonte, come accade in queste condizioni di tempo, le colline mostravano il loro profilo nitido, azzurro, cupo, sullo sfondo di una sottile lingua di cielo turchese che faceva capolino nell’estrema lontananza per preannunciare il ritorno del bel tempo.
“Cosa t’è venuto in mente coi funghi? Li hai trovati tu?” chiese Pertinace appena si vide Pietro davanti.
“Macché” rispose questi “meli hanno regalati”. “Ilo già detto a Mariascia di farmene stasera stessa una porzione al salmoriglio” disse Pertinace con un mezzo sorriso come se li vedesse già pronti nel piatto. “Anche gli ovuli sono buoni, fatti così?” domandò Pietro. “Come no? Anzi sono quelli che si adattano meglio degli altri. Però noi dovevamo continuare un certo discorso” rispose Pertinace, tagliando corto sulla culinaria.
“Appunto” si limitò a dire Pietro. “Però è passato un po’ di tempo e non ricordo dove Ceravamo fermati” disse Pertinace alzandosi dallo scrittoio e portandosi su una poltroncina di vimini accanto alla finestra. “Al sindachino” suggerì Pietro. “Ah, sì! Al sindachino” ripetè Pertinace. “Stavamo quindi discutendo della compensazione”.
“Non vorrei però, a questo punto, che tu ti fossi fatta un’idea tutta in negativo della compensazione, e quindi prima di proseguire devo avvertirti che in tanti casi essa non dico che sia benefica, ma è pur sempre una valvola di scarico della nevrosi che ne sta alla base. Taluni dicono perfino che lo stesso equilibrio altro non sia che la risultante di tante compensazioni”.
“Certo, l’ideale sarebbe intercettare la nevrosi, padroneggiarla e darle uno sbocco equilibrato. Ma è difficile, tante volte la strada della compensazione nuda e cruda è obbligata”.
“Tornando ai nostri paesani, riconsideriamo il caso di Ferruccio che è poi quello che ci ha offerto il destro per parlare di queste cose. Se ricordi avevo accennato alla sua statura. Ebbene, egli è alto, sì e no, un metro e sessanta e quindi è un brevilineo" .
“Come tutti i brevilinei egli, attraverso il classico percorso ‘confronto-consapevolezza’ avvertì a suo tempo questa condizione e concluse che gli mancava qualcosa rispetto agli altri. Non ne fu contento, come puoi immaginare, anzi con l’andare del tempo si ripiegò su sé stesso pensando sempre alla stessa cosa perché i confronti erano - e sono - continui, tambureggianti e finì per farsene, come si dice, una malattia. Per di più, come abbiamo già visto, l’ambiente familiare accelerò questo processo".
“Fu così che lentamente si insediò nel suo cervello la persuasione di non essere come tutti gli altri - ti ricordi di Bicicletta? - e, sentendosi inferiore, fu catturato dal complesso di inferiorità e divenne frustrato. A questo punto, quando cioè la strada fu per lui obbligata, pensò e pensa continuamente di ‘allungarsi’, di diventare più alto. Quando, ad esempio, si incaponì sulla frase latina, con contorno di viaggi, non fece altro che uno di questi tentativi”.
“Questo meccanismo della mente, questo pensare a ‘come allungarsi’, sia in senso fisico che metafisico, unito alle modalità per arrivarvi, non è altro che compensazione”.
Pertinace diede tempo a Pietro di mandare giù, come si dice, il rospo di Ferruccio che stentava a farsi digerire e, per agevolargli l’ingrata operazione, s’alzò e si attardò a cercare una scatola di legno contenente sigari avana ricevuta in regalo.
Gli piaceva il profumo e ne fumava uno ogni tanto con fare impacciato e con qualche colpo di tosse, come accade sovente a chi non ha mai contratto il vizio.
Anche ora ne accese uno con gesti lenti, quasi flemmatici affinché Pietro portasse finalmente a termine l’ingrata digestione. E riprese:
“Sarei tentato, al punto in cui siamo arrivati coi nostri discorsi, di dare un nome - tanto per intenderci meglio - al soggetto posseduto da questo sentimento di inferiorità. Lo chiamerei Fruco, per designare una volta per tutte quell’individuo che, dominato dalla FRUstrazione, se ne lascia irresistibilmente pilotare fino all’inevitabile sbocco in una condizione d’animo, in un’atmosfera mentale che non gli lasciano scampo sull’oppor- tunià di ricercare e trovare una soluzione altro che nella COmpensazione. L’espressione Fruco è soltanto un acronimo, come si direbbe in gergo tecnico, un artificio lessicale, una parola for-mata dalle iniziali di altre per esprimere i due concetti e soltanto così, naturalmente, va intesa”.
“Quanto poi ai brevilinei, visto che se ne presenta l’opportunità, ti dirò che, stando sempre nel settore dei complessi d’inferiorità, mi sentirei di proporre con forza la classificazione del genere umano in due distinti rami, quello appunto dei brevilinei e quello dei normo-longilinei”.
“Chi nell’antichità usò metodi che potremmo chiamare con una parola grossa ‘scientifici’ fu Ippocrate, il medico greco vissuto cinquecento anni prima di Gesù Cristo, di cui già parlammo. Egli basò la sua attività sull’osservazione, sul principio della costanza delle leggi naturali e sull’esercizio della professione di medico come ‘missione’”.
“Da quell’epoca fino ai nostri giorni furono fatti tentativi di classificazione dei tipi umani, ma la più semplice, quella che meglio delle altre consente di spiegare tante cose dei comportamenti singoli e collettivi, mi sembra essere proprio quella a cui ho appena accennato”.
“Bisogna però mettersi d’accordo sull’intrinseco significato dei due termini. Per brevilineo si dovrebbe intendere colui il quale è consapevole di possedere statura inferiore a quella media del gruppo di appartenenza. L’espressione ‘statura media’ non ha significato universale. Essa varia all’interno di una stessa razza, da un continente all’altro, da una nazione all’altra, da un parallelo e da un meridiano all’altro. A questo ramo appartiene altresì quel tipo di normo-longilineo, il quale - pur possedendo statura fisica uguale o superiore a quella media del gruppo umano di appartenenza - acquisisce consapevolezza, mediante il meccanismo del confronto, di non possedere qualità psico-fisiche o d’intelletto, posizione sociale e quant’altro egli reputi occorrente per potersi considerare appartenente a pieno titolo alla famiglia dei normo-longilinei”.
“Questo tipo umano dovrebbe essere dunque assimilato ai brevilinei e chiamato falso o pseudo normo-longilineo”.
“Di converso, per normo-longilineo si dovrebbe intendere colui il quale possiede statura fisica uguale o superiore a quella media del gruppo umano di appartenenza e per falso o pseudo- brevilineo colui il quale, pur possedendo statura fisica inferiore a quella media del gruppo umano di appartenenza, ha qualità d’intelletto tali da poter annullare o disperdere le proprie caratteristiche di Fruco e acquisire titoli per essere assimilato ad ogni effetto ai normo-longilinei”.
“Una volta accettata questa classificazione, che è poi una semplificazione, risulterebbe facile concludere che nella vasta famiglia dei brevilinei - reali o virtuali - si colloca la maggior parte di coloro i quali sono afflitti dal sentimento di inferiorità”.
“Estensivamente poi si dovrebbe accettare un brevilinearismo collettivo, di massa, che ha connotati comuni con quello dei singoli soggetti. Se ricordi ne abbiamo già parlato”.
“Dovrebbe quindi nascere, per ovvie ragioni, anche una nuova branca della ricerca psicologica indirizzata unicamente allo studio, alla cura e al recupero delle sterminate schiere afflitte da questa nevrosi. Si potrebbe, per coerenza anche lessicale, chiamarla Frucologia”.
“Oltre tutto si otterrebbe anche qui una semplificazione enorme a beneficio del sofferente, il quale non si dovrebbe più rivolgere a uno specialista della psiche, che fra parentesi dovrebbe saperne quanto una cinquantina di giganti del pensiero appartenenti alle più disparate discipline, messi insieme, ma a uno che si occupa soltanto della cura del malessere causato dal complesso di inferiorità (Frucopatia), ovverosia al Frucologo”.
Mariascia bussò alla porta e, senza attendere risposta, entrò con un vassoio in mano su cui c’era una fumante caffettiera che stava ancora gorgogliando le ultime gocce, due tazzine, una zuccheriera in falso stile giapponese e tre cucchiaini d’argento. Depositò il vassoio sul tavolino in mezzo ai due, girò il faccione sorridente verso Pietro e uscì. Pertinace indicò col dito una tazzina per invitare Pietro a servirsi e quindi bevve lentamente il suo caffè addolcito con due cucchiaini di zucchero.
Pietro consumò il suo, ripose la tazzina nel vassoio e, come per concludere una riflessione, si allontanò un poco con la sedia e commentò: “Mi pare d’aver capito che le persone veramente equilibrate sono pochissime e che ci vorrebbe una diavoleria di quelle di oggi, una macchina gigantesca, per classificare i comportamenti della gente e sapere - per curarle - donde provengano le Frucopatie”.
“Mi sembra evidente” rispose Pertinace “che la Frucologia non potrà prescindere dall’uso di macchine classificatrici. Vedi, al pari di tanti altri problemi irrisolti per carenza di integrazione fra molteplici e diverse discipline - come ad esempio per i tumori - voglio dire per mancanza di una persona o di un gruppo che assommi in sé le conoscenze di tanti settori delle scienze e le combini fra di loro estraendo le soluzioni idonee, anche la sfera dei comportamenti e delle nevrosi che li comandano, necessitano prima o poi dell’apporto delle macchine”.
“L’intelligenza dell’uomo, che deriva - come abbiamo già visto - dalla sterminata capacità del cervello, difficilmente potrà essere non dico superata ma neppure eguagliata né sostituita nella valutazione dei singoli casi. L’aiuto delle macchine io però lo vedo insostituibile, preziosissimo. Sotto questo profilo un’accurata classificazione dei comportamenti dei due protagonisti, singolo e collettivo, legata strettamente alle cause che li governano, individuate attraverso analisi scientifiche raffinatissime, di tipo medico, ambientale, ereditario e quant’altro, non potrebbe che rivelarsi di enorme ausilio nella determinazione
- sempre riservata all’uomo - della diagnosi e della terapia”.
“Non sono cose - è ovvio - che possano essere realizzate da un giorno all’altro, ma basterebbe incominciare e non scoraggiarsi degli inevitabili insuccessi iniziali. E sottinteso che dovrebbe essere tutelata al massimo la personalità dei soggetti
- singoli e collettivi - e matematicamente garantita la riservatezza dei dati”.
“Su questo nutro qualche dubbio” intervenne Pietro. “Dub¬bio o non dubbio” rispose Pertinace “i problemi scientifici e quelli che travagliano il mondo sono ormai talmente intricati e difficili che non si riesce a pensare a una loro soluzione senza l’aiuto delle macchine. Anche qui la strada è obbligata”.
La discussione era a questo punto quando, fra i battenti accostati della finestra, comparve la faccia pulita di Bicicletta che infilò il braccio nella fessura e, usando le dita a mo’ di fionda, fece piovere una lettera ai piedi del tavolino, scomparendo poi dietro un “salve” tanto allegro quanto ansimato.
Pertinace si piegò per raccattarla e, rialzatosi, commentò: “Lo vedi? si sta compensando”. “Ma sono tutti così, proprio tutti?” chiese Pietro con tono di interesse, leggermente velato d’incredulità. “Tutti” rispose Pertinace “Potremmo stare qui fino a chi sa quando e non finiremmo mai”.
“E sufficiente essere, come più volte abbiamo detto, avvertiti - e tu ormai dovresti esserlo - per notarli distintamente o per richiamarli dalla memoria”.
Pertinace aprì la lettera portatagli da Bicicletta, la lesse e la gettò con stizza sulla scrivania. Si trattava di un incauto postulante che raccomandava il proprio figlio alla generosità di giudizio del maestro.
Poi sfilò da una pila di libri un quaderno sgualcito, lo aprì e riprese: “Qui, vedi, ho elencato alla rinfusa una serie di comportamenti che - a mio parere - caratterizzano in maniera lapidaria parecchi soggetti dei quali stiamo parlando”.
“Ma allora, signor maestro, un libro già lo avete?” interruppe Pietro quasi a voler vincere la risaputa modestia di Pertinace e incoraggiarlo alla pubblicazione.
“No, amico mio” rispose pronto Pertinace “non è un libro. Sono appunti raccolti alla svelta che dovrei via via arricchire. Forse, un giorno, chissà...”.
Cominciò a sfogliare il quaderno e riprese: “Vi trovi, tanto per citare qualche esempio, oltre a quelli di cui abbiamo parlato, il Fruco-despota, il dittatore domestico, come l’abbiamo chiamato”.
“Vi trovi il Frucogiullare od osannante, il classico esemplare di leccapiedi, prontissimo tuttavia a trasformarsi in tiranno persecutore dei propri subordinati. Questa è una genia particolarmente odiosa perché, come certamente saprai, ha fatto propria la regola di essere debole e meschino coi forti, fino al servilismo, e forte coi deboli fino alla crudeltà”.
“Trovi anche il Fruco turbolento, che non si accontenta di compensare la propria frustrazione con il consueto armamentario ma ricorre a espedienti aggiuntivi”.
“Col frastuono, ad esempio, come coloro che, prima di muoversi con la propria auto, producono accelerazioni inutili e rumorosissime del motore e stridore lacerante di gomme”.
“O quelli che in luoghi pubblici, con tono di voce elevato e con gesti plateali per farsi ascoltare e notare dai più, si impelagano in discorsi che vorrebbero essere sensazionali, improntati all’esagerazione, al catastrofismo, al protagonismo e pretendo¬no, in cuor loro, che l’improvvisato uditorio ne rimanga ammirato e stupefatto”.
“Trovi perfino il Fruco-consanguineo, quello sventurato individuo che ha per fratello non un uomo qualsiasi ma un personaggio che ha raggiunto altissimi livelli di fama, di notorietà, di affermazione, di carisma”.
“Non c’è forse Fruco più Fruco di costui, che deve perenne- mente confrontarsi col congiunto e rimanerne inesorabilmente sopraffatto, schiacciato, annullato. Prova a pensare al suo stato d’animo”.
“Trovi anche il Fruco-vendicatore”.
“E un caso, neppure tanto raro, di quel Fruco intraprendente che indossa spavaldamente l’abito del vindice di una piccola Frucopoli nei confronti di una grande città con la quale il suo piccolo paese inutilmente si confronta”.
“Vedo qui un altro tipo di Fruco, quello che ricorre a piccoli espedienti per nascondere la propria condizione. Potremmo definirlo Fruco-mimetico. Come quelli che tentano abilmente di mascherare, con un ciuffo di capelli convergente sulla parte, l’incipiente calvizie, oppure lasciano crescere capelli ancora più lunghi andandoli a recuperare dalle tempie o dalla nuca quando la calvizie è di quelle vistose”.
“Oppure ancora non abbandonano mai il cappello e calzano scarpe con tacchi alti per mascherare col primo una inferiorità che non accettano e sollevarsi con le altre, senza raggiungerle, verso misure alle quali ardentemente aspirano”.
“Trovi, ancora, il Fruco che non si stupisce mai di nulla. Potremmo chiamarlo Fruco noncurante. Metastasio, che è un altro grand’uomo, diceva che ‘La meraviglia è figlia dell’ignoranza ma è madre del sapere’. Ognuno di noi, che ci consideriamo persone normali, di fronte a uno spettacolo della natura o davanti a un bel quadro, a una statua stupenda, a un palazzo armonioso, a una qualsiasi opera d’arte, oppure ascoltando un racconto o un concerto straordinario, è portato istintivamente a concentrarsi sull’oggetto, godere dell’ineffabile piacere e alla fine esclamare ‘oh, che bello’. Fruco no. Per Fruco queste cose sono già alla sua portata, anzi sono superate. Egli, non solo non si meraviglierà e non dirà oh, che bello!, neppure di fronte alle più alte espressioni del genio umano, ma di volta in volta ostenterà noncuranza e si affretterà a dire che di opere come e più belle di quella, spettacoli più suggestivi, racconti e concerti più eccellenti ne ha già visti e ascoltati in abbondanza. Anzi, per sentirsi ‘superiore’ ne citerà altri, diversi, che pure esistono, e non ti sta ad ascoltare”.
“Vi trovi il Fruco opportunista che puoi riconoscere dall’uso che egli fa del nome, anziché del cognome, quando si rivolge a persona che egli considera più importante o condizionante oppure con potere o ruolo di prestigio. Egli userà il solo nome, che farà precedere dalla parola ‘amico’. Così, scriverà o dirà ‘l’amico Giulio’, ‘l’amico Carlo’, e così via. Può essere un metodo, fra i tanti che pure esistono, di ingraziarsi il prossimo, di trarne qualche vantaggio diretto o indiretto, immediato o venturo. Spesso però è un chiaro tentativo di collocarsi su piani conside-rati ‘superiori’, là dove Fruco ‘vede’ l’amico. Si asterrebbe, naturalmente, da tutti questi maneggi se l’amico navigasse in cattive acque o fosse caduto in disgrazia”.
“Vi trovi il Fruco scampanellante, che ricorre cioè ai più im-pensabili espedienti per attrarre l’altrui attenzione e dimostrare di ‘essere importante’. Egli sente dentro di sé di trovarsi al di sotto della soglia della comune attenzione, per requisiti che avverte di non possedere, e così tenta di richiamamela attraverso svariate modalità di comportamento. Ora con l’abbigliamento estroso, fuori dal comune, ora con il contegno anomalo e imprevedibile fra persone e contesto che non lo giustificherebbero, ora con il gesticolare scomposto, ora con la loquela a mitraglia, ora con acconciature bizzarre o l’impiego smodato di cosmetici e ammennicoli vari (orecchini, tatuaggi, bracciali, collane e quant’altro), ora con l’uso di particolari mezzi di trasporto, come auto fuori serie, motocicli di fogge e cilindrate eccezionali, purché rumorosi, ora con la ricerca affannosa e reiterata di una battuta di spirito purchessia, e così via di seguito. Il tutto per tentare disperata- mente di colmare il deficit dal quale si considera sopraffatto e collocarsi o rimanere al centro dell’attenzione generale”.
“Vi trovi il Fruco afflitto temporaneamente da una forma tutta particolare di rassegnazione. Egli è talmente avvilito dal suo deficit da non intravvedere altro comportamento compensatorio che nell’occultamento di sé. Così, si nasconde, evita di apparire al di fuori della cerchia familiare e si logora internamente. Col tempo però si ravvede, se così si può dire, e imbocca finalmente la strada delle comuni compensazioni. Questi soggetti raramente sfuggono a una regola generale, che è quella di scegliere quando si sposano, se si sposano, un partner invariabilmente longilineo. Qui però dobbiamo aprire una parentesi e aggiungere che, se brevilinea è la donna, il compito di sfoderare il brando della compensazione sarà tutto suo e lo gestirà con le modalità che abbiamo già esaminato. Se invece brevilineo è l’uomo, il suo tormento sarà maggiore, perché modesto sarà il beneficio che trarrà dalla compensazione”.
“Vedo qui anche il Fruco malavitoso. Perché anche fra questa genìa le frustrazioni non mancano. Egli si manifesta in maniera particolarmente feroce per distinguersi dai suoi accoliti e aspirare al bastone di comando. Il che non di rado gli riesce”.
“Fa poi capolino, in mezzo agli altri, un altro bell’esemplare. Oltre ai caratteri propri del Fruco, egli manifesta chiaramente i sintomi di una particolare frustrazione aggiuntiva che lo rende particolarmente fastidioso. Mi piace chiamarla ‘sindrome della lingerie’”.
“Scusate, signor maestro”, intervenne Pietro “già prima avete nominato qualche personaggio che io non conosco affatto e non vi ho interrotto per educazione. Ora mi parlate della sindrome della lingerì, ma se non mi spiegate di che cosa si tratta, io resto ignorante come prima”.
“Dei personaggi che dici di non conoscere” proseguì Pertinace “parleremo in altra occasione. La sindrome della lingerie invece è una formulazione originale per tradurre in modo elegante un detto dialettale antico delle nostre parti”.
“Perciò, per ‘sindrome’ si deve intendere una specie di sintomo, un segnale che caratterizza una malattia. Con ‘lingerie’, che è un termine francese, si suole identificare la biancheria intima, quella che di solito sta a contatto della pelle. Il detto antico, tu del resto lo conosci, suona dunque così: “U culu chi non vitti mai cammisa, appen’a vitti s’a nchiappau!”. Letteralmente si traduce così: “Il culo che non ebbe mai contatto con la camicia, appena l’ebbe la insudiciò”.
Pietro assentiva col capo sorridendo.
Pertinace continuò: “Tu sai che io non amo le espressioni volgari o grossolane. Questo detto tuttavia si attaglia bene a coloro i quali, dimentichi di avere navigato fino a ieri se non proprio nell’indigenza o nella povertà, quanto meno nei dintorni, ora che, per fortuite o fortunose circostanze, assaporano un po’ di benessere, si montano la testa e assumono atteggiamenti boriosi e sprezzanti fino all’alterigia, quando non sconfinano addirittura nella megalomania. In sostanza, disperdono volutamente la memoria del passato, che invece dovrebbe guidarci nel presente e indicarci il futuro, e si abbandonano pericolosamente alla pratica di imo stile di vita che non è più il loro, scimmiottando in modo volgare e grottesco quello di altri che essi considerano ‘arrivati’. Il detto dunque, che sintetizza il percorso mentale del Fruco megalomane, lo metterei in forma elegante e suonerebbe così: ‘Il basso di schiena che mai ebbe confidenza con la lingerie, appena ne venne in contatto la insudiciò’. E così, quando essa affligge Fruco, che di afflizioni ne ha già tante di sue, la chiamerei, come già dissi, ‘sindrome della lingerie’”.
“Vi trovi anche il Fruco commediante. Ce ne sono di varie specie. Penso a quelli che, senza amarli davvero, non resistono alla tentazione di possedere un animale purchessia. E mi viene in mente Plutarco, un grand’uomo dell’antichità, il quale affer¬mava che la parte amorosa che è in noi preferisce, in mancanza, di oggetti più validi, fabbricarsene falsi e frivoli”.
“Comunque, ripeto, la casistica potrebbe continuare all’infinito”.
Con l’accenno agli animali, Pietro comprese di possedere i requisiti per sentirsi Fruco a tutti gli effetti. E, come spesso accade senza che noi ce ne accorgiamo, sentì prepotente il bisogno di rimuovere questo pensiero.
Disse: “Anche le donne sono Fruchi?”.
Pertinace, sfogliando meccanicamente il quaderno senza leggere, continuò: “Per la donna è pressappoco la stessa cosa. A favore di essa tuttavia, e qui apro una parentesi, gioca un elemento di cui va tenuto debito conto. Si tratta del ruolo che fin dall’antichità o dalla preistoria le è stato assegnato o le è piovuto addosso a motivo, molto verosimilmente, della sua minore forza muscolare. Comunque sia, questa creatura si trascina tutto un retaggio di prevenzioni, di preconcetti e di luoghi comuni che l’hanno ridotta, nell’ordinaria opinione maschile, in una condizione di vera e propria minorità. Figurati che vi fu un tempo nel quale essa, per il solo fatto di essere donna, veniva identificata col demonio. Proprio così. E ancora oggi, tanto per sintetizzare con una banalità che tuttavia fa parte del patrimonio deteriore di tutti noi, essa non può guardare in faccia per più di qualche minuto secondo un uomo che non conosce, senza correre il gravissimo rischio di essere giudicata donna di malaffare o, nel migliore dei casi, di essere malintesa”.
“E la risultante di una serie continua di pregiudizi alimentati nei secoli, oltre che dalle varie religioni, anche da grandissimi uomini, quelli che tu non conosci, come Esiodo, Giovenale, Dante, Boccaccio, lo stesso Shakespeare. Figurati che Lorenzo Da Ponte nelle ‘Nozze di Figaro’ di Mozart mette in bocca al protagonista questa cantata per le donne: ‘Son streghe che incantano per farci penar, civette che allettano per trarci le piume, comete che brillano per toglierci il lume. Son rose spinose, son volpi vezzose’. E un altro scrittore, un secolo dopo di Da Ponte, ebbe l’ardire di pubblicare un libro dal titolo ‘L’inferiorità mentale della donna’”.
“Tu pensa quali distorsioni possono radicarsi, per millenaria accettazione - o più semplicemente perché all’uomo fa comodo così - nella mentalità collettiva e come nel tempo acquistino valore di simboli o di postulati indiscutibili. C’è da tremare! .
“Ecco quindi che una distinzione s’impone nell’ambito femminile per non confondere quelle donne che si battono per una causa sacrosanta, com’è quella del loro pieno riscatto, della parità dei diritti e della pari dignità, con quelle afflitte invece dal sentimento di inferiorità.
“Fatta questa debita premessa, si può dire che la condizione di Fruco non varia sostanzialmente fra un sesso e l’altro”.
Pietro fece un gesto con la mano come per indicare che voleva dire qualcosa. “Dimmi” gli disse Pertinace. E Pietro: “Vado pensando che forse non è poi un grosso male se tutte queste cose che avete detto non vengono a conoscenza degli interessati. Primo, perché, sapendole, essi potrebbero perdere la loro spontaneità e poi perché, entro certi limiti, togliereste loro la speranza”.
“Sul fatto della conoscenza” rispose Pertinace “posso essere d’accordo con te perché ci vorrebbe un editore veramente aperto per pubblicare queste cose che io, del resto, non ho tempo di scrivere. Sulla spontaneità e sulla speranza, mi dispiace dirtelo, ma è esattamente il contrario. Se avessi voglia, tempo, capacità di scrivere e un editore disponibile metterei su carta, né più né meno, quello che ho detto a te sull’argomento complesso di inferiorità”.
“Aggiungendo semmai due parole di esortazione a ricercare, nella serena valutazione del proprio mondo interiore, la capacità di padroneggiare impulsi, stimoli, pulsioni, chiamali come vuoi, per mitigarne gli effetti, per incanalarli verso strade percorribili, per smussarne gli angoli, per trarne perfino - se possibile- beneficio”.
“Facendo ciò mi appellerei allo spirito di accettazione della propria condizione, senza il quale qualunque tentativo non avrebbe speranza di successo. Mi dilungherei certamente sull’efficacia della consapevolezza e della presa di coscienza, come piattaforma per costruirci sopra una vita serena nei rapporti con sé stessi e con il prossimo”.
“Altro che privarli della spontaneità e della speranza! Nella condizione in cui Fruco è costretto a vivere, di spontaneo c’è soltanto l’atto della compensazione, mentre la speranza è latitante e al suo posto c’è la frenesia, quando non c’è - come talvolta invece c’è - la depressione. Egli, al contrario, dovrebbe aprire gli occhi e il suo animo a una nuova realtà e costruirsi una speranza ex novo. La speranza, cioè l’obiettivo, di conseguire una vita normale e serena senza il bisogno di uniformare i propri comportamenti, esasperandoli a prezzo di enormi sofferenze, a quelli delle persone o degli scenari con i quali tende a confrontarsi”.
“Ora però basta, sono stanco” concluse Pertinace alzandosi.
Si diresse verso la finestra e bisbigliò: “Ha smesso di piovere e comincia a imbrunire”.
Pietro capì che era ora di ritirarsi.
Ringraziò della lunga chiacchierata, salutò e si avviò verso il portoncino.
Mariascia lo precedette e, sulla soglia, gli strinse la mano. Non era un gesto abituale, ma lo fece pensando che fosse qualcosa di più riguardoso di un semplice arrivederci e, forse proprio per questo, ne arrossì.
Pietro, con la testa piena dei ragionamenti di Pertinace, non vi fece caso. Egli, felicissimo d’aver potuto ascoltare discorsi di tanta importanza, non volle staccarsi dall’impegno mentale di digerirli. La qual cosa continuò a fare distraendosi anche durante la cena, con disappunto della moglie che ne registrò lo scarso interesse - contrariamente al solito - verso un intingolo che aveva preparato con tutti i cinque sensi.
Ma Pietro era immerso in un’atmosfera troppo esaltante per badare a queste cose.

 

Lorenzo Milanesi (Milano)

 

 

 

 

 

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