Solo
il nostro super esperto di ferrovie, il settorista
Emanuele Lazzati (aveva partecipato per quella
materia a un noto spettacolo condotto da Mike
Buongiorno) potrebbe cavillare su eventuali
inesattezze sugli orari del percorso e sulle
caratteristiche della “Freccia del Sud”, quel mitico
treno che costituisce lo spunto di questo mio
racconto. Dato che non mi soffermerò su profili
tecnici, ma piuttosto sulla varia umanità che
utilizzava abitualmente quel mezzo di trasporto,
siamo certi di poter contare sull’indulgenza del
nostro apprezzato collega di un tempo. Tanto per
chiarire il concetto, diciamo subito che la
“Freccia” non era un vettore qualunque: era
piuttosto un luogo di situazioni estreme. Dentro gli
scompartimenti, c’era gente che giocava a carte; e
poi, pendolari, militari, operai e madri con bambini
che piangevano in continuazione. Tutti fumavamo come
turchi e di tanto in tanto si abbassavano i
finestrini per fare entrare l’aria gelida per
tentare di espellere gli odori e gli umori di una
variopinta umanità da seconda classe. Si sentiva in
sottofondo qualche discussione accesa, ma non si
registravano effettivi litigi. Imperavano i
dialetti, specie il napoletano e il calabrese. Il
contesto non era molto chic, ma quando gli occupanti
aprivano finalmente le capaci borse con le cibarie,
ti dicevano “favorite!” e t’invitavano a mangiare
assieme a loro. La Freccia, così, non era più solo
il mezzo che collegava, dal 1953, il sud con il nord
dell’Italia. Era un sentimento, una partecipazione
popolare alla cultura della rinascita del dopoguerra
e alla solidarietà tra i viaggiatori. Quando
risaliva lo Stivale, portava con sé le speranze del
lavoro e di un futuro dignitoso. Quando
ridiscendeva, faceva affiorare spontanee emozioni e
gli indimenticati profumi delle nostre origini. Il
capostazione fischiava il via al
Milano/Siracusa/Palermo attorno alle venti, ma la
fiumana del popolo migrante si era appostata lungo
il binario ore e ore prima per cercare di calcolare,
con millimetrica esattezza, il luogo d’apertura
delle porte dei vagoni. Era diventata un’arte la
tecnica di fiondarsi sul predellino per trovare un
agognato posto a sedere, senza il quale ti sarebbe
toccata un’intera nottata in piedi, oppure
accucciato sul valigione con i panni da far ripulire
e stirare dalla mamma. Sotto le feste, infine,
bisognava pure tenere d’occhio la confezione col
panettone da recapitare ai tuoi parenti. Che Natale
sarebbe stato se non avessimo potuto celebrare la
ricorrenza con un prodotto di alta pasticceria
meneghina, tipo Cova o Bindi? Era l’occasione per
testimoniare ai propri cari che, nella capitale
lombarda, ti eri sistemato finalmente in maniera
decorosa. Ma poter trascorrere quel lontano Natale
del 1971 a Salerno era sembrata, per una serie di
concomitanze, un’impresa impossibile. Prima di
tutto, per un’infelice coincidenza di calendario,
non si configurava nessun classico “ponte”. Quel
dicembre ci aveva proprio inguaiati: la Vigilia
cadeva di venerdì, Santo Stefano di domenica e il
lunedì 27 bisognava essere inevitabilmente presenti
al lavoro. Senza almeno un aggiuntivo giorno di
ferie non avrebbe avuto alcun senso partire. Come
poteva contare però su un privilegio del genere un
poverino come me, entrato in un ufficio di direzione
appena il 13 dicembre, con poco più di tre mesi di
servizio alle spalle? Il gran capo d’allora mi
metteva un’enorme soggezione e, in fin dei conti,
nemmeno lo conoscevo se non per l’asciutto colloquio
di benvenuto che mi aveva riservato. Mi ero fatto
così una ragione del malinconico fine settimana che
avrei trascorso nella pensioncina di Via Solferino
ove avevo trovato alloggio. E, quindi, non avevo
nemmeno tentato di prenotare una cuccetta per la
sera del 24; nemmeno avevo comprato il biglietto.
Tuttavia, il magone che avevo dentro doveva leggersi
chiaramente nei miei occhi se il compianto Dante
Gattini, allora mio superiore diretto, il giovedì
sera mi chiese che programmi avevo per i giorni a
venire. Con aria sconfortata gli confidai che per un
periodo così breve non mi sarei avventurato in un
viaggio tanto problematico e, quindi, mi sarei
aggirato nelle trattorie del centro cittadino per
assaggiare, da solo, un risottino e una bella
cutulett cun l’oss. Verso metà mattinata del
venerdì, giorno di Vigilia, mi si avvicina il
commesso per comunicarmi che il capo vuole
urgentemente parlarmi. Mi riannodo alla meglio la
cravatta, preoccupato di aver combinato qualche
sbaglio nei miei nuovi compiti. Arrivo trafelato
dinanzi alla monumentale scrivania e mi metto in
posizione di ascolto, con le mani incrociate dietro
la schiena. Con aria sorniona e con tono di
apparente rimprovero il “principale” mi chiede cosa
avrebbero pensato i miei genitori per un’assenza
nella più importante festa della famiglia e, ancor
più, che giudizio avrebbero espresso sulla
generosità dei miei superiori diretti. Poiché è solo
colpa tua che non sei stato capace di farti avanti,
mi disse. Adesso, corri subito a fare le valige e
torna non martedì 27, ma addirittura il ventotto e
portami ad assaggiare gli struffoli che certamente
avrà fatto tua madre. Che straordinaria sorpresa:
farfugliai un “grazie Avvocato, grazie Dante”, ma le
gambe stavano già incamminandosi per conto loro
lungo Via Verdi per arrivare il più in fretta
possibile a preparare il piccolo bagaglio. Ricevetti
frastornato i saluti di rito; con la mente ero già
alla stazione. Mi sembrava un miracolo; ai miei non
telefonai nemmeno per fare un’improvvisata. In
Centrale era parcheggiata una folla oceanica sul
marciapiede interessato: inutili tutti i disegni
cabalistici per trovarmi all’altezza delle porte di
accesso. Salii a fatica, m’installai in quaranta
centimetri di spazio entro i quali poter spostare il
peso del corpo da una parte all’altra, in un
corridoio stipato in maniera indescrivibile. Come
fu, come non fu, tra una Nazionale e l’altra
trascorsero le ore notturne. Da Portici in poi,
sulla destra si ricominciava a vedere il mare e la
commozione e la stanchezza inumidivano lo sguardo
anche senza volere. Ecco allora una seconda,
incredibile novità: “Vincenzino, che ci fai su
questo treno?”. Giro il capo e riconosco tra le
tante persone che si frappongono il conterraneo e
vecchio compagno di Liceo Giuseppe Mario Marano che
non avevo visto più da quasi una decina d’anni.
Travolgiamo la gente che ci separa e ci abbracciamo
con calore. Da dove vieni? Da Milano. Toh, anch’io!
E che ci fai a Milano? Lavoro. Dove? In banca. Ah,
si? Pure io, guarda che coincidenza. E quale Banca?
La Banca Commerciale Italiana. Incredibile, eravamo
colleghi e lo apprendevamo solo in quel momento.
Ormai la Freccia del Sud costeggiava Vietri sul
Mare, si stagliava il profilo della costiera nella
fioca luce dell’alba. Un amico del cuore ritrovato,
tante promesse di frequentarci al rientro in sede
per rinnovare l’antico sodalizio. Mezzanotte era
passata da un pezzo, era ormai il venticinque
dicembre e a quel punto potevamo a buon titolo dire:
“Buon Natale, Maruzziello, Buon Natale, Vincenzino”.
Tutto ciò, grazie a chi, quella volta di
quarantacinque anni fa, aveva permesso a
un’impossibile magia di realizzarsi.
Vincenzo Barone
presentiamo alcune
fotografie scattate durante la "pizzata"
milanese (24/11/2016), cui ha partecipato anche
Vincenzo cliccate sulle miniature per ingrandirle e visualizzare le didascalie |
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