La
competizione a distanza
da
"Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"
di Lorenzo Milanesi (Milano)
Di
ritorno dalla festa il parroco si raccolse in preghiera davanti
all’altare in segno di ringraziamento per aver ottenuto la
disponibilità di Pertinace alle conversazioni con le quali egli
intendeva gettare le basi per il definitivo ritorno all’ovile.
Ormai s’era creata fra i due una certa atmosfera che andava al
di là della stima reciproca, fino a rasentare l’amicizia e
quindi margini di speranza ce n’erano a sufficienza.
Nel contempo chiese ispirazione per la scelta delle modalità di
avvicinamento e di approccio o di aggiramento dei due gendarmi
dai quali ora si sentiva osservato e accerchiato con arcigna
severità.
Finì di pregare senza ricevere né aiuto né consiglio e così, con
l’animo turbato dall’ambiguità di questi preliminari, ultimò di
malavoglia i doveri della giornata che volgeva al termine e si
coricò nella speranza di una qualche illuminazione mattutina.
Per parte sua, Pertinace si incamminò verso casa contrariato
dalla richiesta del parroco, alla quale acconsentì per atto di
cortesia e perché non sopportava che altri potesse considerarlo
pavido. Ma continuava a ripetersi: “Cosa diavolo vorrà da me
costui?”.
“Mi viene a dire che i temi della fede ci tengono separati in
apparenza?”. “Ah! ah!” sogghignava “in apparenza” Abissi ci
separano, altro che solo l’apparenza! Un conto sono le persone,
sia pure con la tonaca, un conto le convinzioni. Un conto la
stima che si può avere come uomo, come persona avveduta, colta,
come parlatore e predicatore, un altro conto sono le posizioni
di ognuno di noi di fronte ai dogmi della fede e alle credenze
in genere. Ma cosa crede? di ricattarmi, forse, perché ho ceduto
alle sue pressioni per diventare padrino di Luigino? Si sbaglia
di grosso. Mi sentirà”.
Era accigliato, quasi torvo quando varcò il portone di casa e
porse a Mariascia il pacchetto di dolci ricevuto dal barone.
Andò a letto che probabilmente aveva già progettato il da farsi
per il giorno dopo.
Difatti, appena alzato, sbrigò in fretta le consuete incombenze
e si diresse con fare deciso al suo tavolo di lavoro. Estrasse
un foglio di carta e cominciò a scrivere.
“Illustre reverendo”.
“Il luogo e il momento che ieri furono testimoni della vostra
richiesta di approfondimento dei temi che in apparenza - come
amate dire - ci tengono separati, non si prestavano che a un
consenso di massima”.
“Fornire motivazioni e chiarimenti in quella sede, in mezzo a
tanta gente e nell’imminenza della conclusione della festa, mi
sembrò inopportuno e poco garbato”.
“Ora però abbiamo tutto il tempo per provvedervi e mi faccio
premura di notificarveli”.
“Premetto anzitutto che non feci alcuna fatica ad assecondare il
desiderio di Adele affinché io fossi il padrino di suo figlio:
due furono i motivi che mi spinsero ad accettare. Il primo, che
Adele aveva mille ragioni per ricorrere a questo stratagemma e
far sì che le ore lavorative del marito aumentassero, in altre
parole che non si perdesse in chiacchiere con me (seppi dello
stratagemma, anche se lo avevo intuito, per vie traverse)”.
“Il secondo, che ero talmente entusiasmato dall’opportunità che
mi si offriva di conoscere un vescovo, di assistere da
‘protagonista’ (posso dire così?) a una cerimonia tanto
importante, di ascoltare un’omelia indirizzata esclusivamente ai
bambini, di vivere insomma una giornata sulla stessa lunghezza
d’onda dei cresimandi, che, se non avessi ricevuto le vostre
pressioni, mi sarei presentato egualmente in chiesa e mi sarei
mescolato fra il nugolo dei parenti”.
“Come vedete le cose sarebbero andate comunque allo stesso modo,
nel senso che, in una maniera o nell’altra, alla cerimonia sarei
stato presente”.
“Relativamente alle diversità solo apparenti, mi affretto a
dissipare eventuali abbagli nei quali, senza volere, ognuno di
noi può incappare e, a maggior ragione, voi che avete il dovere,
come servizio, di sorreggere i vostri propositi con massicce
dosi di speranza”.
“Ho citato due giganti del pensiero umano, quali sono Erasmo e
Voltaire, perché è da questi due personaggi che bisognerà
partire, nei ragionamenti del tipo di quelli che desiderate
affrontare, per misurare se la nostra diversità nel concepire la
religione e la religiosità sia davvero apparente o se questa
diversità sia invece, come sospetto, molto concreta”.
“Poco importa che l’uno, Erasmo, sia nato 229 anni prima
dell’altro. Da certi punti di vista è come se i due fossero
contemporanei”.
“Il primo mise a nudo - voi certamente lo sapete - delle verità
sconcertanti. Scrisse fra l’altro: ‘Per quanto sia vergognoso e
turpe vedere i principi cristiani adottare in materia fiscale
una linea di condotta più spietata di qualsivoglia tiranno
pagano, lo spettacolo che essi offrono è pur sempre meno
esecrando di quello che offrono i sacerdoti; i quali dovrebbero
tenere il denaro a vile, dovrebbero distribuire gratuitamente i
loro doni come gratuitamente li hanno ricevuti, e che invece ti
fanno pagare anche loro ogni cosa, senza la minima esenzione.
Per difendere le loro decime non arretrano neanche davanti alle
prospettive più tragiche; sottopongono alle più odiose angherie
il popolino indifeso e diseredato. Non ricevi il battesimo - il
che vuol dire che non hai il diritto di diventare cristiano - se
non metti mano alla borsa: ed ecco il brillante auspicio che
segna il tuo ingresso in chiesa. Non ti convalidano un
matrimonio senza farsi pagare, non prestano orecchio a un
penitente senza aspettarsi una ricompensa. Dicono messa a
pagamento, non cantano gratis, non pregano gratis, non impongono
le mani gratis. È già molto se levano la mano nel gesto della
benedizione senza esigere una ricompensa. Non si prestano alla
consacrazione di un sasso o di un calice, se non hanno intascato
la loro tariffa. E inquinato di lucro perfino quello che sarebbe
l’ufficio del pontefice per eccellenza, ì’ammaestramento del
popolo. E alla fine non ti comunicano neanche il corpo di
Cristo, se non metti mano alla borsa’”.
“Il secondo, due secoli dopo, non fu da meno. Parlando della
religione - voi questo, forse, non l’avete letto - egli affermò:
‘Non sarebbe forse la più semplice quella che insegnasse molta
morale e pochissimi dogmi? che mirasse a render giusti gli
uomini senza renderli assurdi? che non prescrivesse di credere a
cose impossibili, contraddittorie, ingiuriose per la Divinità e
dannose al genere umano, e non osasse minacciare delle pene
eterne chiunque si attenesse al senso comune? che non sostenesse
i suoi dogmi per mezzo di carnefici e non inondasse la terra di
sangue per dei sofismi incomprensibili? quella in cui un
equivoco, un gioco di parole e due o tre documenti falsi non
facessero un sovrano e un dio di un prete spesso incestuoso,
omicida e avvelenatore? che non sottomesse i re a questo prete?
che insegnasse soltanto ad adorare un Dio, la giustizia, la
tolleranza e l'umanità?”’.
“Oggigiorno” proseguì di suo Pertinace “le decime, in un modo o
nell’altro, continuano a esserci e non si è del tutto sicuri che
non vi siano più intrighi e venefici, né governanti succubi”.
“Però le guerre di religione continuano imperterrite a mietere
vite umane. L’uomo è più egoista, aggressivo e feroce dei suoi
antenati, nonostante che su grande parte del nostro pianeta
svolgano la loro frenetica attività, da molti secoli ormai,
tante religioni”.
“Si sarebbe paradossalmente tentati di domandarsi se per caso
non ci sia rapporto di causa ed effetto”.
“E tuttavia concordo alla fine con Voltaire quando sostiene che
se la religione non ci fosse, bisognerebbe inventarla”.
“Comunque sia, i nostri discorsi - anche se potrà sembrare ch’io
voglia preliminarmente occuparmi di aspetti che chiameremo
‘terreni’ - non potranno che procedere da questi due personaggi”
.
“Vi prego di scusare l’ingerenza nei vostri piani, ma m’è parso
di portare un contributo di chiarezza nel confronto che, quando
vorrete, potremo avviare”.
“Con i migliori saluti”.
Firmò, infilò la lettera in una busta, la incollò e chiamò
Mariascia perché la portasse al destinatario al più presto.
Sul momento il parroco si illuse che Mariascia gli portasse una
buona notizia, l’ispirazione mattutina sulla quale la sera
precedente aveva fatto assegnamento, ma, scorsa la lettera, i
due gendarmi gli apparvero ora armati fino ai denti. Anzi
l’intero contesto gli sembrò perfino provocatorio e dovette fare
appello alle sue doti di pazienza, moderazione ed equilibrio per
reprimere l’impeto di rispondere subito e per le rime.
Riflettendo anzi sui vari aspetti della vicenda, concluse che il
parere del vescovo fosse ormai indispensabile. In fondo, cosa
poteva essergli rimproverato? Nulla. Egli aveva fatto il proprio
dovere di pastore e se ora subentravano difficoltà, era giusto
che il vescovo gli venisse in aiuto con un consiglio.
Così pensò e così fece.
Il colloquio col vescovo si svolse in un’atmosfera di palese
freddezza, che divenne gelo via via che affiorarono tutti i
particolari della vicenda.
Il parroco capì e non potè che aggiungere amarezza al rammarico
per l’iniziale insuccesso della prova alla quale era stato
chiamato dai suoi precisi doveri di pastore.
“Mi rendo ben conto” intervenne il vescovo quando intuì che il
parroco aveva esaurito la sostanza del discorso “che il
proposito di riportare le pecore nel gregge fa parte dei nostri
doveri primari. Capisco anche, però, che la solerzia e lo zelo
possono lodevolmente spingerti a ingaggiare una sorta di
cimento, tanto più impegnativo e puntiglioso quanto più
l’ostacolo si presenta arduo e ostico, quanto più la posta
risulta difficile da conquistare”.
“Le energie che tu destini a questa battaglia sono il distillato
più pregevole del tuo animo e il segno più chiaro della mano
misericordiosa di Nostro Signore”.
L’atteggiamento austero e distaccato del vescovo, i suoi occhi
limpidissimi e gelidi, non avrebbero fatto presagire espressioni
tanto lusinghiere; ma il parroco non si turbò. Interpretò anzi
quelle parole come pillole gradevoli per facilitare bocconi
indigesti. E fu nel giusto.
“Ora, secondo quanto tu mi fai intendere” proseguì il vescovo
“la pecora non sarebbe distante dal gregge. Questa è una tua
opinione che non mi sento però di condividere, visto il
contenuto della lettera che quel fratello ti ha inviato. Egli, a
mio parere, appartiene a quella frangia di umanità
spiritualmente più tormentata delle altre. Ha studiato, ha
approfondito, entro certi limiti s’intende, i problemi
dell’esistenza, della morale e della fede, ma si lascia
sopraffare dai dettami della scienza. Questa, lo sappiamo, non
può spiegare tutto e, quindi, si lascia attrarre dal
trascendente, pretende di indagarlo e poi se ne ritrae”.
“È un continuo ondivagare nel quale la natura speculativa di
questi individui trova il terreno di coltura più adatto. Ma
fondamentalmente, anche se può sembrare paradossale, la loro
religiosità specifica, il bisogno di trascendenza, l’esistenza
di una spiritualità che sfugga alla logica e alle regole della
ragione, sono fuori dubbio”.
“Quando, come nel caso di questo Pertinace, ricorrono ai loro
santoni per polemiche e dispute superate, fuori del tempo, vuol
dire che stanno attraversando un periodo di ciclico travaglio.
Vuol dire che l’arcano fascino dell’immenso, del quale
vorrebbero spiegare il mistero, ha ceduto il posto alle
ingannevoli lusinghe del pensiero raziocinante. E allora, ormai
lo sappiamo bene, ci raccontano - come se noi lo ignorassimo -
che la nostra galassia è popolata da miliardi di stelle simili
al nostro sole e da miliardi di miliardi di pianeti simili alla
nostra Terra, e aggiungono - non si sa se per stupirci o per
imbavagliarci - che di galassie come la nostra ve ne sono a
miliardi, l’una distante dall’altra milioni e milioni di
anni-luce. E concludono che asserire che l’uomo sia l’unico
essere pensante di questo universo sterminato equivale a
sanzionare una sciocchezza. Perciò l’idea di Dio sarebbe, dal
loro punto di vista, riduttiva”.
“E tuttavia non sanno dare una spiegazione scientifica
dell’origine del creato altro che con uno scoppio fragoroso,
dell’uomo altro che con l’ausilio del caso o della necessità.
Sicché non hanno coscienza dell’infinito e dell’eterno. Tutte
cose alle quali incommensurabile grandezza di Nostro Signore ha
dato da lunga pezza, anzi da sempre, ordine e sistematicità”.
S’interruppe, dilatò un poco le palpebre e scosse il capo
lievemente come a significare: “Questo è il rituale”.
Il parroco non osò intervenire. Si limitò ad assentire col capo,
allargando le braccia e aspettando che l’altro concludesse.
“Superata e digerita la temporanea seduzione delle apparenti
certezze” continuò il vescovo “essi sono assaliti dai dubbi e
tornano all’incantevole richiamo del mistero. Sono fasi che
durano parecchio tempo, intervallate a volte da periodi di
accese polemiche, che potremmo definire di basso profilo, come
quando, ad esempio, si ergono a giudici di certi papati che la
stessa Chiesa ha già bollato con verdetti inequivocabili”.
“Il fratello di cui ci stiamo occupando attraversa evidentemente
un periodo poco propizio agli approcci che avresti in animo di
avviare. Reputo quindi opportuno abbandonare questo sentiero
irto di complicazioni e attendere tempi migliori”.
“Si tratta ora di trovare i modi e le parole acconce per tornare
sui tuoi passi senza offrire immagine di cedimento o pretesti
per illazioni arbitrarie. L’obiettivo, non possono esserci
dubbi, rimane lo stesso; i tempi si devono giocoforza allungare.
Ora vai e se sei persuaso che la pecora non è distante dal
gregge, cura, nei limiti che il nostro servizio ci concede, che
almeno non se ne allontani”.
“Quando reputerai che sia giunto il momento di fare un ulteriore
passo, avvisamene preventivamente”.
Si alzò, spostò la poltrona e, aggirando la vasta scrivania, si
diresse verso il parroco che ebbe appena il tempo di
bisbigliare, tanto era la perentorietà dei gesti del vescovo:
“Va bene, eccellenza. Farò come mi dite. Sia lodato Gesù
Cristo”.
Si scambiarono un abbraccio e una stretta di mano e il parroco
si avviò alla porta accompagnato dal vescovo.
Il pensiero di trovare “...i modi e le parole acconce...” con
Pertinace, come il vescovo gli aveva ordinato, occupò la maggior
parte del suo viaggio di ritorno in paese.
Quando vi giunse, la soluzione era già pronta. Si sarebbe
concesso cioè il solito periodo di cure termali, anche se la
stagione era alquanto avanzata, e da quel soggiorno avrebbe
inviato una lettera interlocutoria, saggiamente dosata, per
procrastinare gli incontri che, per ironia della sorte, egli
stesso aveva sollecitato.
Lorenzo
Milanesi (Milano) |